FEMMINICIDIO

lunedì 25 agosto 2008

Ti amo ti posseggo ti uccido

Ti amo ti posseggo ti uccido

Articolo di Beatrice Busi comparso su Liberazione il giorno 08/08/08
I commenti tra parentesi sono miei.

Nel 2006, in Italia, sono state centododici le donne uccise dagli uomini che avevano più vicini. Mariti, ex fidanzati, padri, compagni. Quattromilacinquecento le denunce per abusi e aggressioni stimate dal ministero degli Interni. Tante, troppe, sapendo che la maggior parte delle violenze non viene denunciata. Un lungo anno di violenza maschile contro le donne, come quelli venuti prima e purtroppo, c'è da immaginare, anche quelli che verranno. Ce lo racconta attraverso quasi trecento casi, tratti da giornali e agenzie di stampa e raccolti in ordine cronologico, e uno zoom più approfondito su quindici storie un libro collettivo, Amorosi assassini. Storie di violenze sulle donne (Laterza, pp. 280, euro 16), curato dalle giornaliste e scrittrici del gruppo Controparola. Un documento importante, che dà sostanza e corpo alle disperanti statistiche che, in tutti i modi, da più di due anni, andiamo ripetendo dalle pagine di Liberazione . Ma quello che colpisce del libro è soprattutto la lucidità con la quale si denuncia il clima di acquiescenza, ai limiti della complicità, dei contesti nei quali avvengono le violenze. Un clima che interpella e deve interrogare tutti e tutte. Significativamente, il libro si apre con il caso Francesco Bisceglie, 69 anni, detto padre Fedele, il prete-padrone dell'Oasi francescana di Cosenza che aveva trasformato il "suo" centro di accoglienza in un luogo di violenze, abusi e ricatti sessuali, ripetuti, sistematici. Sì, perché quando la vicenda emerge in tutti i suoi squallidi contorni grazie alla denuncia di una suora, «da tutte le parti si alzano voci che lo difendono alla cieca senza nemmeno sapere cosa sia successo». Sono le voci dei tifosi del Cosenza - padre Fedele era un assiduo frequentatore della curva oltreché di salotti televisivi -, quelli dei volontari e dei collaboratori del centro. Ma anche quella del vescovo della città che, preoccupato, chiede di evitare «giudizi frettolosi». «Comunque, tutti trovano normale e ovvio che la suora e, con lei, altre donne mentano». «Ho scelto di raccontare brevemente questa storia - spiega Dacia Maraini - perché dentro c'è tutta l'Italia di oggi, in bilico tra le tradizioni secolari degli abusi che ricordano le usanze feudali e un'organizzazione tecnologica che dà l'illusione della modernità: l'ipocrisia accettata come dato di fatto, l'avversione per la testimonianza delle donne, che viene subito screditata, da una parte e dall'altra, la passione popolare per il calcio, l'uso disinvolto e volgare del linguaggio televisivo, una conoscenza ben radicata delle leggi del mercato del lavoro e la possibilità di scambiare protezione contro sesso». Un'ipocrisia che ritroviamo anche nella storia raccontata da Claudia Galimberti, quello di Francesca Baleani, salvata per miracolo: picchiata brutalmente, strangolata con un filo del telefono dal suo ex marito che, credendola morta, la carica in macchina e la butta in un cassonetto alla periferia della città. Lui, Bruno Carletti, direttore artistico del teatro comunale di Macerata, come spesso accade, ha un'immagine pubblica di rispettabilità che in molti si sono sentiti in dovere di confermare. Il sindaco, che lo definisce un caso di «umana pietà». Il direttore del teatro, secondo il quale, Carletti avrebbe confuso il teatro con la realtà. Padre Iginio Ciabattoni, responsabile della comunità Croce Bianca alla quale è stato affidato Carletti come misura alternativa al carcere preventivo, con una discutibilissima intervista rilasciata a Il Resto del Carlino : secondo lui, l'ex marito di Francesca era malato d'un amore estremo, cieco, tanto da diventare violento e omicida e lei non troverà mai qualcuno che l'ami così tanto. Troppo spesso, dopo la denuncia vengono altre ferite che ci riportano indietro di molti anni, «a quell'Italia che era ancora indulgente verso i carnefici e inquisitoria nei confronti della vittima». Come nella storia raccontata da Cristiana di San Marzano, quella di Marta, 13 anni, costretta, per mesi, da un gruppo di adolescenti, a "prestazioni sessuali" riprese coi telefonini e poi fatte girare su Internet. Marta prima additata, isolata, lasciata da sola. Se non fosse stato per quella donna, la madre di un compagno di scuola, che dopo aver visto le immagini ha fatto partire la denuncia. Marta costretta più volte a raccontare, a spiegare e rispiegare tutto nei particolari agli inquirenti. Marta e la sua famiglia che dopo la denuncia devono cambiare casa e quartiere per gli avvertimenti e le minacce che li bersagliano perchè lei ha osato difendersi contro quei giovani rampolli. «Nella cronaca irrompe l'ultima frontiera della violenza, quella tecnologica. Non basta aggredire, umiliare, stuprare. E non basta il vecchio bar dello sport, per farsi belli e far sapere quello che hai fatto. Per dimostrare che sei un duro, che il branco è padrone e fa quello che vuole. Oggi quello che conta è la condivisione con un branco ancora più ampio, addirittura virtuale». Il caso di Paola, stuprata perché lesbica fuori da un locale a Torre del Lago, raccontato da Maria Serena Palieri. «Il continente delle violenze cui sono soggette le lesbiche è al 90% oscuro, più sotterraneo ancora di quello delle violenze sessuali in genere: denunciare d'essere stata stuprata in quanto lesbica richiede infatti una doppia dichiarazione, quella della violenza subita e quella della propria idenità sessuale». E quanto coraggio ci vuole, anche solo a vivere, in una società omofobica, le cui istituzioni faticano a stigmatizzare le discriminazioni per l'orientamento sessuale o l'identità di genere, quando non ne negano l'esistenza. Che fare dunque? Come nominare questo complesso intreccio? Barbara Spinelli, giovanissima ricercatrice e avvocata dei Giuristi democratici, ci restituisce l'esperienza dei movimenti di donne nel Centro e Sud America in Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale (FrancoAngeli, pp. 208, euro 18). Un'esperienza esemplare, che è stata capace di coniare nuovi concetti e nuove categorie e di sostanziare attraverso campagne internazionali, di lotta e sensibilizzazione, la denuncia della violenza maschile contro le donne. Molte le parole chiave proposte e analizzate: femmicidio, femminicidio, ginocidio, patriarcato. Un sistema integrato al quale opporre la sorellanza tra donne, la denuncia, l'autodeterminazione. Femminicidio (in castigliano, feminicidio), scrive Spinelli nella premessa al libro, è «un nome nuovo per una storia vecchia quanto il patriarcato». Marcela Lagarde, sociologa e antropologa messicana, lo ha utilizzato per mettere in evidenza la matrice sistemica e strutturale della violenza contro le donne, che è sia sociale che istituzionale. Il termine si è poi diffuso per parlare di Ciudad Juarez, città di frontiera ai confini con gli Usa, che è diventata il simbolo delle uccisioni di donne «in quanto donne», dove la violenza sessista è amplificata dalla violenza neocapitalistica, ma anche la dimostrazione della potenza di denuncia, mobilitazione e trasformazione sociale di cui sono agenti i movimenti femministi. Lagarde anche grazie al suo ruolo di parlamentare si è fatta promotrice del dibattito internazionale per l'introduzione del femminicidio negli ordinamenti giuridici come reato specifico e dal 2004 dirige la Commissione speciale sul femminicidio in Messico. Il 18 marzo 2008 si è parlato di femminicidio per la prima volta anche in Italia, in un'aula di Tribunale, durante il processo per l'omicidio di Barbara Cicioni, ammazzata dal marito Roberto Spaccino nel maggio dello scorso anno. Al procedimento sono state ammesse come parti civili ben 5 associazioni, tre che si occupano di diritti delle donne, due di diritti umani, tra le quali i Giuristi democratici. «L'ammissione della costituzione dei Giuristi democratici come parte civile in questo processo ha una fortissima valenza, in quanto riconosce che il femminicidio, e nello specifico la violenza domestica, non rappresenta solo una lesione dei diritti della donna, un fatto privato, né tantomeno è un "fatto di donne", ma costituisce una profonda ferita per la società tutta». Spinelli sottolinea come, fino al 2004, «le forze dell'ordine messicane per contrastare il fenomeno si avvalevano soprattutto di misure poliziesche di controllo del territorio, in realtà inutile dal momento che, come è stato scoperto dalla Commissione, l'85 per cento dei femminicidi messicani avviene in casa per mano di parenti, e concerne non solo donne indigene ma spesso studentesse, impiegate, anche di media borghesia». E il 60 per cento delle donne poi uccise aveva già denunciato violenze e maltrattamenti. Una lezione particolarmente importante per l'Italia, se di pacchetto sicurezza in pacchetto sicurezza, l'azione istituzionale continua a strumentalizzare o a eludere il fatto che il luogo privilegiato della violenza maschile contro le donne è la famiglia. Ma se la risposta sicuritaria è inadeguata e inefficace non può nemmeno bastare una campagna per il riconoscimento giuridico del femminicidio come fattispecie di reato (e qui pare opportuna una nota di specificazione da parte mia -n. di Barbara-: se pure nel mio libro documento la campagna per il riconoscimento del femminicidio come reato in atto in alcuni paesi del Centro e Sud America, tengo a precisare, per evitare ogni fraintendimento, che nè nel libro nè in alcun altra sede ho mai sostenuto l'utilità di riconoscere in Italia il femminicidio come reato. Semmai sono interessata al processo di riconoscimento del femminicidio come crimine conro l'umanità a livello internazionale, questa si battaglia simbolica di spessore ben più rilevante). Non possiamo di certo aspettarci che il concetto che secondo Spinelli ha reso dirompente la parola pubblica femminista in America Latina possa assumere la stessa potenza una volta calato nel contesto europeo. (ecco, qui ci sarebbe parecchio da discutere invece......a mio avviso :-) - n.d. Barbara). Come scrivono le giornaliste di Controparola nell'introduzione ad Amorosi assassini , «la violenza contro le donne - comunque essa si declini - è la conseguenza dello stato delle relazioni tra i due sessi. E questi uomini, viene spontaneo pensarlo, non sono più i patriarchi sicuri di se stessi e del brutale diritto che esercitavano nell'Italia dell'altro ieri, contadina e arcaica. Sono uomini che reagiscono in questo modo a un potere che sfugge». Servono anche a noi quindi, più che mai, nuovi strumenti di analisi per descrivere senza timori e abitudini ideologiche il nuovo contesto nel quale vengono agite le vecchie forme di violenza. Strumenti che sappiano esplicitare la specificità della "nuova" violenza maschile tesa alla restaurazione di quell'ordine simbolico e materiale mandato in frantumi dal movimento femminista dei Settanta. Ma se gli uomini non sono più «patriarchi sicuri di se stessi», le donne non possono di certo essere semplicemente schiacciate nel ruolo di vittime. (e chi ce le schiaccia? Certo non chi parla di femminicidio conoscendo la storia del neologismo, posto che nasce come categoria volta proprio a destrutturare gli schemi del patriarcato! Vero è che se invece viene usato per la sua evocatività fonetica come slogan il rischio si pone...-n.d. Barbara-). E' questo il rischio che segnalano le femministe che criticano l'importazione tout court del concetto di femminicidio (e infatti il mio libro serve proprio per un "uso", ed una "importazione" consapevoli ;-) !! No al consumismo sloganistico -lo vado ripetendo da anni a quelle dell'UDI che si vantano di aver "coniato" il termine- !!! -n. di Barbara-). Perché, come ha scritto Renato Busarello venerdì scorso su Liberazione, nella prima puntata di questi "Smascheramenti" curata dal Laboratorio omonimo, è «meglio leggere le discontinuità anziché affidarci alle rassicuranti categorie di lungo periodo: "patriarcato" copre tutte le società a ogni latitudine negli ultimi 5mila anni e rende conto di strutture profonde, ma certamente non ci permette un'analisi degli strati più recenti e di regimi biopolitici specifici». Raccogliamo questa sfida prima possibile, perché di tempo non ce n'è davvero più.

Nessun commento: